Disoccupazione: una penosa esperienza di rifiuto
L’essere umano guidato dal suo istinto di vita e dalla tendenza al benessere interiore, si trova inesorabilmente a fare i conti con il malessere e la sofferenza intesi come negazione e assenza della condizione positiva. Dal punto di vista della salute mentale è abbastanza scontato che l’uomo ha bisogno di amore per realizzare l’edificazione di se stesso, degli altri e del mondo che lo circonda in maniera sana, positiva e propositiva. Essendo l’uomo un animale sociale estrapola la maggior parte dei criteri, con i quali definisce se stesso, soprattutto all’interno dalle relazioni col prossimo; quindi esperienze relazionali come uno specchio nel quale educere se stessi. Sempre in tema di relazioni di prestigio, nella storia evolutiva umana si sono evidenziate le molteplici, possibili relazioni a rischio capaci di compromettere l’equilibrio emotivo e salute mentale dell’individuo; una di queste, fra le più dannose è indubbiamente l’esperienza di rifiuto. Citiamo nella circostanza solo alcuni dei rifiuti eccellenti: il bimbo rifiutato dalla madre; lo scolaro rifiutato dalla scolaresca; l’adolescente rifiutato dal gruppo dei pari; l’adulto rifiutato dai colleghi –mobbing-. Il rifiuto e l’esclusione da parte del gruppo di appartenenza innesca nella mente umana una sindrome di fallimento personale cui segue un processo di sgretolamento della propria immagine lento, ma inesorabile con idee di in’adeguatezza, spesso sensi di colpa e condanna di se stessi per quello che accade con conseguente svilimento, tristezza ed anche depressione. L’esperienza di rifiuto e di espulsione nella mente della vittima ha gli effetti di una bocciatura senza appello. L’io si svilisce, si ripiega su se stesso, ritira la libito dagli investimenti affettivi in ogni direzione dalle cose, dai luoghi, dalle persone e persino da se stessi. Detta esperienza a volte è talmente penosa tanto da portare il soggetto a scegliere la morte. Il disoccupato sia quello che non trova lavoro, sia quello che il lavoro l’ha perso, spesso si percepisce rifiutato, espulso, bocciato dalla vita e dalla società, inadeguato; le difficoltà pratiche relative alla sopravvivenza, paradossalmente, rappresentano il male minore rispetto al baratro interiore che lo pervade. Meno disastrosa appare invece la condizione del lavoratore che perde il lavoro contemporaneamente ad altri colleghi in quanto il ruolo – membro di un gruppo- rimane attivo e gli consente di continuare ad appagare , anche se parzialmente, il bisogno di appartenenza e di identificazione.
Dr.ssa Elisabetta Vellone