Come ampiamente pronosticato, i primi giorni di Donald Trump alla Casa Bianca non hanno deluso le aspettative dei suoi sostenitori – né quelle dei suoi critici.
Dopo l'avvio ufficiale della costruzione del promesso – e controverso – muro al confine con il Messico (con annessa crisi diplomatica), il nuovo Presidente degli Stati Uniti lancia un ulteriore segnale ai propri elettori, emanando uno stop di novanta giorni alle richieste di visto provenienti da sette Paesi (Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen) a maggioranza islamica, e una sospensione di centoventi giorni alla programma di accoglienza per i rifugiati.
Provvedimenti che l'Amministrazione Trump vede come atti di difesa da "ruberie" di posti di lavoro e da attacchi terroristici, ma che in breve tempo hanno prodotto una vigorosa reazione domestica e internazionale, fra proteste, obiezioni di sedici procuratori generali, ed esplicite condanne dell'ONU.
Fra le censure provenienti da tutto il Mondo, trovano sicuramente un posto di rilievo quelle lanciate da Google – che difende i propri 187 dipendenti coinvolti dalla misura – e da altri grandi nomi della Silicon Valley, molti dei quali a propria volta di origini straniere.
Interventi che a loro volta hanno suscitato vivaci polemiche, riassumibili in una domanda:
Ma perché Google assume tanti stranieri? Gli Americani non vanno bene?
Già.
Sembra di risentire, seppur su scala molto maggiore, le proteste seguite alla nomina di ben sette professionisti stranieri fra i venti nuovi curatori di Musei scelti dal Mibact nell'agosto 2015 – chi parlò di sudditanza verso la Germania (tre i nominati tedeschi), chi di mancanza di rispetto verso le competenze degli Italiani…
Il tutto dimenticandosi delle tante Istituzioni analoghe dirette all'estero proprio da nostri connazionali!
Ecco quindi un paradosso per gli oppositori della Globalizzazione – come criticare l'arrivo di forestieri, con tanti propri conterranei in giro per il Globo?
Scacciare gli invasori e richiamare in Patria la diaspora?
Possibile, almeno in teoria: purché il talento e i prodotti nativi siano quantitativamente e qualitativamente sufficienti a soddisfare la domanda interna – e chi si accetti un atteggiamento simile da parte degli altri Paesi.
Per l'Italia, così dipendente dall'export, è davvero una strada percorribile?
Siamo davvero disposti, ad esempio, a rinunciare alle produzioni estere, spesso così convenienti per le nostre tasche, e a comprare italiano?
Siamo pronti, una volta aperte filiali in Cina, ad accettare di assumere solo lavoratori del posto?
E allo stesso modo, sono disposti milioni di Americani a mettersi a studiare in massa Ingegneria, Informatica, ecc., per rimpiazzare i giovani Indiani che ogni anno approdano in California?
Dilemmi della Globalizzazione – e domande che i suoi detrattori dovrebbero porsi, al di là degli anatemi.
Andrea Torti